linea è la traccia del punto in movimento. La traiettoria di un atto creativo che esprime la forza che l’origina. La linea divenuta forma esiste sempre anche quando non è tracciata: al bordo di una campitura di colore, al margine tra la luce e l’ombra ecc. Sul foglio la linea separa due superfici: una figura e uno sfondo, divide e unisce. Rette o curve, tese o avvolgenti, le linee sono energia che si fa materia. La linea, anche spezzata e angolata, è l’unico elemento che in funzione del suo addensamento può creare una superficie. La linea può anche essere curva.  Scrive Kandinsky: “è propriamente una retta ma deviata dal suo cammino per la continua pressione laterale”.

 

 

La capacità morfogenetica della curva sta nell’originario conflitto dinamico da cui ha origine e che imprime in essa una forte carica tensionale.

 

“La linea geometrica è un’entità invisibile. E’ la traccia del punto in movimento, dunque un suo prodotto. Nasce dal movimento e precisamente dalla distruzione del punto, della sua quiete estreme, in sé conchiusa. Qui si compie il salto dallo statico al dinamico. La linea è, quindi la massima antitesi dell’elemento pittorico originario, il punto. […] Per quanto riguarda il ruolo e il significato della linea nella plastica e nell’architettura, non c’è bisogno di dimostrazioni la costruzione nello spazio è, di per se, una costruzione lineare. Un compito importantissimo per la ricerca nella scienza dell’arte sarebbe un’analisi dei destini delle linee nell’architettura, almeno nelle opere tipiche presso popoliLa diversi e in epoche diverse, e, ad essa collegata, una traduzione puramente grafia di queste opere.”

 

W. Kandinsky, Punto, Linea e Superficie


Sappiamo che la nascita del fenomeno decostruttivista avviene a New York, ad una mostra organizzata da Philip Johnson, sul finire degli anni Ottanta del XX secolo…ma cos’è il decostruttivismo? Si può dire che nasce come reazione al movimento post-moderno e si basa sul rifiuto totale della purezza formale e della geometria euclidea e, quindi, sulla totale mancanza di tutti quegli elementi e di quelle strutture considerate, fino a quel momento, parte integrante di quest’arte. Si disegnano, allora, edifici dove il “caos” fa da padrone, dove le strutture sembrano sempre instabili, tagliate, scomposte e disarticolate,  dove gli spazi si compenetrano e i materiali si torgono e si piegano al loro massimo, dando appunto l’aspetto di qualcosa che possa crollare da un momento all’altro. Sono architetture fantastiche dove l’ordine e il disordine convivono. Per permettere la massima plasticità dei volumi, sono necessari tutti quei materiali considerati high tech e tecnologicamente avanzati, come il vetro, il cemento armato e l’acciaio. Esiste però un filone comune a tutti questi esponenti: prima di tutto, la teoria decostruttivista del francese Jacques Derrida e, poi, le ricerche condotte dagli architetti russi negli anni Venti del XX secolo, che furono i primi a rinunciare all’idea di equilibrio e di unità che stavano alla base della composizione classica. Questo fu il precedente storico che gli architetti decostruttivisti come Zaha Hadid, Frank O. Gehry, Rem Koolhass, Daniel Libeskind e Peter Eisenman si trovarono ad abbracciare e ad esasperare. Tra queste archi-star, Gehry è forse il maggiore fra gli architetti decostruttivisti anche se, non lo sentirete mai ammetterlo pubblicamente.